Ci siamo, è successo di nuovo, capita sempre quando c’è di mezzo sua bobbità. Ci si divide. Chi stronca, chi gioisce, chi mugugna, chi assegna sufficienze. E’ la maledizione (benedizione?) di tutta una carriera. A ogni svolta il pubblico si spacca, discute, lo abbandona, arriva altra gente; quando il numero si ingrossa però…lui non è più lì. I’m Not There…
Dovremmo dunque concludere che il film è “divisivo”? (Sarebbe peggio solo “iconico”). Eppure se vogliamo parlare di immaginari americani…chi più di Dylan? Timothée Chalamet/Bob Dylan piace ai giovani che affollano le sale, i boomer sbavano per le incongruenze. E’ un film su Dylan? Ma no: il regista James Mangold propina il consueto beverone sul successo americano: il solitario con la chitarra arriva in città, omaggia il suo idolo, si batte, arriva allo showdown (il passaggio dal folk al rock a Newport, solo contro tutti), una sorta di sfida da O.K. Corral e finalmente ottiene ricchezza, fama, donne. Il film fa ascoltare – direi bene – la musica di Dylan fino al 1965. Mica poco. Se il tema era il sogno americano quello che manca è proprio l’utopia: perché la generazione che Bob Dylan ha elettrificato era quella dei diritti civili, della libertà, della pace, della droga, della rivoluzione. Dylan l’ha abiurata presto: basta leggere la sua autobiografia, ma non c’entra, quella generazione si è messa in moto con Dylan anche quando lui ha tirato il freno a mano. Nel film Gli anni Sessanta sono ridotti a televisori in bianco e nero o macchine cromate. Però ci sono la musica e le parole: una buona esca per i novizi.