William S. Burroughs, La calcolatrice meccanica, Adelphi, 2024.
Dal 1968, nel mercato editoriale si era fatto strada un nuovo genere di periodico: le riviste di musica pop, che enfatizzavano spesso le «radici underground» della nuova scena musicale ed erano zeppe di pubblicità delle nuove case discografiche proprio nel pieno dell’esplosione rock’n’roll anni Sessanta. Queste riviste pagavano molto meglio…
Così James Grauerholz, collaboratore di lunga data di William Burroughs, spiega nell’introduzione come molti degli scritti ora raccolti ne La calcolatrice meccanica hanno visto la luce, pubblicati dai soggetti più disparati. Il mercato culturale giovanile del periodo vedeva in lui un beat ancora più eretico degli altri, una sorta di maestro oscuro per attraversare gli Anni Settanta, fino almeno al punk (compreso). Ecco allora pagine scritte per le riviste che hanno fatto la controcultura mondiale, come Crawdaddy. Ci sono articoli inquietanti che parlano di virus, di sessualità, di dipendenza dal tabacco e dalla droga, di fantascienza; pezzi che esplorano gli abissi della mente umana, ma che parlano in particolare di cosa significhi essere scrittore, della fatica, della necessità per chi fa questo lavoro di vivere le cose sulla propria pelle per scriverle.
Avete tutti presente il pubblicitario che vuole abbandonare la corsa al successo, chiudersi in una capanna e scrivere il Grande Romanzo Americano. Gli dico sempre: «Non rinunciare agli stimoli esterni, B. J. – potresti averne bisogno».
La possibilità di andare incontro a fallimenti e frustrazioni o di perdere l’ispirazione è molto alta e suggerisce a Burroughs pagine di analisi (e autoanalisi) davvero penetranti. Una possibilità così elevata di sbagliare o di essere sterile porta lo scrittore in balia di sé e degli altri, senza una corazza che lo tuteli dai mali del mondo.
Non vedrete nessun medico, avvocato, ingegnere, architetto che sia diventato campione del mondo nella sua professione starsene in un angolo con il cervello in pappa mentre vende cravatte. Nessun fisico atomico deve preoccuparsi: la gente vorrà sempre uccidere altre masse di persone. Di sicuro ha il frigo pieno di salsicce e acqua di fonte, proprio come l’idraulico. Non gli può succedere niente: donazioni, borse di studio, un arcobaleno fino alla tomba e una lapide che brilla nel buio.
Per gli scrittori niente gloria e ricchezze terrene, però hanno dalla loro un potere diverso, che proviene dall’arrivare quando FINISCE la gloria che ha arricchito un certo tipo di persone fino alla tomba; proprio lì inizia qualcosa di diverso: «Gli scrittori sono tutti morti e tutta la scrittura è postuma».
Anche il metodo del cut up sviluppato da Burroughs, quello che consiste nell’assemblare materiali vari, di vari autori, è una reazione a un certo modo economico e sociale di considerare la letteratura: «Vedete, mi era stata inculcata l’idea delle parole come proprietà – “le proprie parole”- e di conseguenza una profonda ripugnanza per il peccato nero del plagio». Il furto, spiega oltre l’autore è una benedizione che santifica il valore di qualcosa. Geniale, no?
Burroughs parla anche dei colleghi e nel libro sono presenti ritratti di Fitzgerald, Genet, Kerouac, Hemingway…Su “papà” Hemingway Burroughs scrive senza peli sulla lingua pagine davvero particolari.
Hemingway ricevette lodi e ammirazioni dalla critica per cose che non fece. Fiesta fu acclamato come l’affermazione definitiva della lost generation. Non lo era. Ci sono più anni Venti in una pagina di Fitzgerald che in tutto Hemingway. Non era quello che Hemingway stava facendo e non lo si può criticare per questo. (…) Hemingway è stato descritto come un maestro del dialogo. Non lo è. Nessuno parla come parla la gente nei romanzi di Hemingway.
Più oltre rincara la dose: «Hemingway non dava ai suoi personaggi la possibilità di parlare. Parlava sempre lui per conto loro». Questo Burroughs dei saggi non è certo una lettura facile, scontata o divertente e quindi si presenta come un piacere necessario…